Berlin, 2009

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Wednesday, May 11, 2011

piccolo escurso sulle Tesi

(adatto ai bambini sotti i sei anni ad anche ai bambini sopra i sei anni) (Attenzione: può contenere numerosi errori ortografici)


Le tesi sul concetto di storia (ovunque si voglia capitalizzare il titolo) contano fra i testi filosofici del novecento col maggior prestigio e riconoscimento. Difficilmente si potrà aver lasciato gli studi di filosofia, politica, sociologia, arte o letteratura (per citare alcune delle discipline) senza essersi imbattuti almeno su una delle poche tesi. L’autore, come dunque il lettore verosimilmente saprà bene, è Walter Benjamin, un filosofo ebreo tedesco nato a Berlino nel 1892 e morto tentando la fuga dalla persecuzione nazista in un paese di frontiera spagnolo, Port Bou, nel tardo settembre del 1940. All’età di 48 anni muore lasciando come ‘testamento spirituale e materiale’ (se si perdona il gioco di parole che vuole riferirsi al materialismo storico di cui Benjamin erige una delle più belle letture) Sul concetto di storia – inizialmente divulgate come Tesi dulla filosofia della storia. Le poche pagine rientrano certamente fra le più difficili ed amate degli ultimi 50 anni. Eppure – motivi di disaccordo persino dai propri estimatori sembrano rilucere dappertutto. La prima tesi si apre fornendo, continuando coi necessari superlativi del caso, una delle immagini più dibattute ed interpretate: quella dell’omino gobbo ricurvo e nascosto dentro un congegno meccanico su cui predomina un fantoccio vestito alla turca che affronta gli sfidanti ad una partita di scacchi. Vincerà sempre guidato dal gobbo che rappresenta la teologia mentre il giocatore meccanico vuole essere il materialismo storico. Con questa strana coppia si aprono le tesi e il dibattimento infinito di critici e pensatori alla ricerca di una lettura, una presa salda sul significato dell’immagine (fra questi certamente chi non condividerebbe nient’affatto questa mia semplicistica resa). Eppure la tesi che dovrebbe rivolgere e stravolgere gli animi è la successiva. Ma anziché crearsi un’opposizione e una critica feroce pare sempre aver saputo sedurre gli occhi cedutivi sopra. La rivoluzione, od in termini teologici: la redenzione (senza lasciar coincidere i termini), avverrà non nel nome delle future generazioni bensì per le passate: non per un futuro migliore piuttosto per riparare i torti. Nessuno creda questo sia il significato della seconda tesi, ma certamente si può argomentare che è uno dei tanti e fra i più chiari. Si può dire – già è stato detto di tutto – che il contesto (sia questo quello delle tesi, del patto Hitler-Stalin o l’intera oeuvre di Benjamin) spiega quest’asserzione fino a ribaltarla nel suo vero opposto o che soltanto fornisce una penombra, una sfumatura eppure sufficiente a darle il giusto angolo d’inclinatura – resta il fatto che una simile lettura è possibile e persino ragionevolmente plausibile. Nella storia della critica benjaminiana regna fra le più gettonate – i rimandi ad essa sono costanti – e l’entusiasmo, l’amore che suscita non pare aver lasciato spazio a più aspre critiche. Benché, si perdoni la svogliatezza e l’ignoranza nel fornire dati bibliografici più precisi, certamente alcune delle espressioni lì usate avranno senz’altro generato critiche femministe o anti-sessiste, quanto al concetto più pregnante sopra menzionato – pare l’accettazione sia pressoché collettiva e unisona. La rivoluzione e/o redenzione che sia, avverrà (se mai) non per un futuro migliore o in relazione al futuro bensì per soccorrere ai torti passati e subiti. Se il seme dell’idea ha tratto forza dal pensiero e commemorazione della Shoah – da un lato non si vede quale riparazione possa sopperire all’impensabile, dall’altro credere all’attualità della sua memoria pare più una retorica abusata che corrispondere al vero – mentre il fascismo imperversa ancora di nuovo ovunque in Europa non meno che negli Stati Uniti d’America. A rendere l’assurdità dell’affermazione benjaminiana ancora più tangibile basti pensare che i torti di cui egli parla sono tracce nella memoria che neppure abbiamo personalmente esperito ma riguardano la generazione che ci ha preceduto. Riparare i torti ai morti dovrebbe quindi avere un valore più forte che lottare affinché la prossima generazione abbia una prospettiva più felice. Che una tale posizione non abbia suscitato sdegno resta motivo di grande perplessità. Vi saran lettori coi piedi in aria a camminar sulle mani col sangue alla testa per l’impossibilità data loro di ribattere ma leggere solo quest’infelice rendiconto. Eppure Benjamin dice esattamente che solo per coloro senza speranza è dato sperare. E nella seconda tesi oggetto delle presenti considerazioni rivendica il motore della rivoluzione nell’impossibile tentativo di aggiustare il passato piuttosto che nel fare una qualunque cosa per il futuro. Mentre queste parole vengono scritte – la centrale nucleare di Fukushima non accenna a tornare sotto umano controllo – mentre il pianeta – come ben risaputo – scivola quotidianamente nella più ordinaria distruzione. Non abbiamo più anni d’un malato terminale, che possono esser molti ma con la morte in faccia. Tutto sommato la diagnosi di schizofrenia non aveva calcolato la pena dei cancri ed epidemie – i sintomi. La domanda è allora questa: non sarebbe forse più opportuno pensare ad una rivoluzione per salvare questo futuro che minaccia – lo minacciamo – di svanire? Non è forse il caso di gettar la speranza come legna sul fuocherello basso delle fiducia quasi estinta – anziché ciarlanare su un’immaginaria speranza che emergerebbe solo in virtù di chi non ne ha alcuna? Non dovremmo forse rivendicare quel poco di essa che eppur c’è ed alimentarla, nutrirla – sperar in un futuro migliore? La risposta che Benjamin ha dato as una domanda che egli non ha mai posto in questi termini è inequivocabile: no. E – per quanto il mio lettore possa adesso restarne sorpreso, questa è anche la mia risposta ad una domanda che solo una falsa retorica m’ha lasciato formulare in questi termini: la risposta è la stessa: no. Ed allora, perché mai dovremmo affrontare il passato nel nome della giustizia anziché lottare per un futuro migliore? Ha forse la giustizia un peso maggiore nell’altro piatto della speranza – che come si sa è leggera? Ma forse dovremmo porre le cose diversamente e sostenere: c’è speranza solo nel nome della giustizia. Partendo da qui è magari più agevole scendere e risalire su quella breccia che la seconda tesi apre. Ogni futuro – migliore o peggiore che sia, apparterrebbe sempre a questo presente – il futuro di questo status quo che performativamente (nella migliore delle ipotesi), decostruttivamente (il rischio cresce, il deserto avanza) o esplicitamente fascista reitera allora null’altro che questo. La logica della rivoluzione rompe il legame fra presente e futuro perché, rompendo il presente rompe anche il suo futuro (svolgimento – annihlazione...). in tal senso non c’è un migliore/peggiore futuro che sia svincolato da e non compromesso con le dinamiche del potere a cui siamo sottoposti, in Italia non meno che altrove. Un futuro giace contiguo sulla linea che avanza e – migliore o peggiore che sia – risponde ad una logica di appartenenza e potere. Per queste considerazioni apodittiche la memoria dell’immemore, la capienza dello smisurato, la cifra della Shoah – tracciata sulla linea di Port Bou in quel 1940 è un torto a cui dobbiamo ancora riparare. Ci sono voci da ascoltare che non hanno mai parlato – e per ascoltarle è dato noi una forza tale da compromettere persino la linea temporale in accelerata distruzione. Non è lo stato di cose del presente che deve essere cambiato, bensì il tempo stesso – il presente come una forma temporale di iterata ingiustizia e falsità – deve ricevere altro nome. Benjamin, alla fine degli anni ’30 scelse: Jetztzeit: tempo-ora. Così la speranza non è una sensazione o un’emozione, ma quasi trascendentale convoca l’uomo o l’animale sotto il nome della giustizia. Pertanto una ‘speranza’ in un futuro migliore può esser interpretata come una forma d’ansia davanti alla morte secondo un concetto di futurità che trapassa Heidegger fino a Derrida (nazi-capitalismo). Quindi, lungi dall’essere un’emozione dentro noi sorella dell’ansia proiettata verso il futuro – la speranza qui intesa è una voce che forse udiamo da un passato già giocato e per questo senza speranza. La giustizia sarebbe forse allora quella mappa temporale che comanda d’ascoltare – l’inudibile: e riaprire i giochi. Dar’esso non voce ma ascolto. Credo sia questo che abbia saputo ammaliare così tanti lettori dentro la tesi numero due – certo non svincolabile fra le altre: Interpretazioni materialistiche e teologiche, gobbi e manichini meccanici si sono a lungo azzuffati e riconciliati. Una forza fine ci attraversa – d’oro colato – accenderne la miccia della rivoluzione – forse non c’è altro da considerare. – Pare scritto interlinea:


“Il passato reca con sé un indice segreto che lo rinvia alla redenzione. Non sfiora forse anche noi un soffio dell'aria che spirava attorno a quelli prima di noi? Non c'è, nelle voci cui prestiamo ascolto, un'eco di voci ora mute? ... Se è così, allora esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra. Allora noi siamo stati attesi sulla terra. Allora a noi, come ad ogni generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una 'debole' forza messianica, a cui il passato ha diritto. (dalle tesi Sul concetto di storia, Einaudi, 1997, p. 23)”


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