Berlin, 2009

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Thursday, May 12, 2011

La Rosa dei Venti, W. Benjamin

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Alla persona che fosse dato l’intero alfabeto non riuscirebbe mai di inventare una sola parola. Fossero poi a disposizione molti alfabeti diversi la voglia di creare anche solo una parola crescerebbe all’infinito. Provvisti di così tanti segni ed immagini del mondo multimediale né c’è speranza di afferrare l’idea di cosa una parola sia né di contenerne comunque il desiderio. Forse ‘il fatto che gli animali e le cose non parlino’ è la più veritiera prova della sordità alla parola.



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Col multilinguismo si confronta un tema relativamente nuovo nella società multimediale. La figura del poliglotta, capace di intendersi in diverse lingue o dialetti non ha alcuna contiguità col multilingue. Per quest’ultimo i sistemi linguistici giacciono paralleli e intersecantisi su una stessa interfaccia.



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Pertanto aprire questo trattato ponendo il problema della scelta della lingua in cui è scritto si costituisce come un problema, sotto molti aspetti, multimoderno.



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Significa contestualizzare la scelta linguistica in relazione a un ambiente multilingue, dove pertanto lingue non sono ambasciatrici di accesso al potere e potere, sotto ogni qualsivoglia forma di nazionalità, classe sociale o appartenenza politica. L’unica forma di accesso sotto il criterio della pertinenza è invece fornito dall’accesso alla multimedialità.



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Non occorre un grande sforzo immaginativo per visualizzare un canone di correttezza che non corrisponda ad una grammatica sviluppatasi per uso interno o corroborazione con l’esterno, piuttosto al soddisfacimento dei requisiti che rendano possibile la traduzione. La combinatoria delle possibili soluzioni linguistiche verrebbe dunque ristretta all’inequivocabilità del messaggio (incusivo di aspetti emotivi, cognitivi e morali) che, riconosciuto dal motore di traduzione, possa venire tradotto in qualsiasi lingua. Traduzione significa più esattamente decodificazione.



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Parole sono pixels arcaici, un residuo anacronistico dello status quo: e il presente ripiegamento dell’apparato multimediale alla parola costituisce una tendenza reazionaria di subordinazione del nuovo potenziale al potere usato. Solo la liberazione del multimediale dalle vecchie istituzioni linguistiche lo conduce nel suo più pieno potere. Ricreare parole o immagini coi pixels corrisponde alla scelta che venne fatta nel XIX secolo di impiegare il ferro per costruzioni che sembrassero chalet di montagna.



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Il senso di vuoto che proviene dalle parole somiglia, per rimanere con la metafora presa in prestito da Benjamin, a questi chalets di ferro. Cercare le parole porta via dalla corrente universale del multimoderno, rinchiusi fra le vecchie professioni dell’umano.



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Pertanto, porre in principio la domanda della lingua in cui scrivere, non contraddistingue una scelta linguistica tout court, né è il frutto di questo anacronismo storico di cui l’umano è il maggior residuo: il regno umano animale e cosale (nel nome della parola). Eppure potrebbe facilmente essere null’altro che questo, se una distinzione forte non venisse tracciata fra la sperata traduzione e la possibile traduzione: due incompatibili aderenze del concetto di traducibilità.



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Infatti, di quale lingua si faccia uso nel configurare pixels rappresenta chiaramente un falso problema, inessenziale e arcaico. La possibilità della traduzione gioca qui il ruolo di codice assoluto nella configurazione: lungi dall’essere una considerazione secondaria, costituisce il criterio essenziale di accesso e pertinenza nel multimediale. L’unica domanda rimane: soddisfa la formazione i requisiti della traducibilità?



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Ma traducibilità rimane criterio essenziale anche sotto la prospettiva della sperata traduzione. Qui l’irriducibilità della parola a dei pixels va di pari passo con l’impossibilità della traduzione stessa. L’impossibilità di decodificare un testo linguistico significa l’effettiva impossibilità di tradurlo. Mentre viene asserita la distanza fra la parola e il multimediale, l’inaderenza delle parole al codice, sfuma anche la possibilità della traduzione ma non la traduzione stessa: solo parole formate nel codice sono essenzialmente traducibili in possibilità, mentre parole disconnesse dal codice rimangono al di fuori di una connessione di possibilità. Eppure solo la speranza nella traduzione costituisce una parola disconnessa dal canone: la parola emerge solo nella speranza della traduzione, che non coincide con la sua effettiva im/possibilità.



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In questo contesto, problemattizzare non il soddisfacimento dei requisiti per la traducibilità (l’unico nodo problematico per la multimedialità che deve ridurre i termini alla loro im/possibile traducibilità) bensì porre la questione della scelta linguistica – devia dagli interessi del multimoderno. Nondimeno, tale problematizzazione non vuole inserirsi nella logica problematica del multimoderno, bensì problematizzare la stessa multimedialità, e solo a questo secondo livello di problematizzazione si situa la presente domanda di scelta linguistica. Di consequenza, come non può essere subordinata sotto il modello del codice e dei suoi requisiti, tantomeno può essere ridotta ad un arcaica, anacronistica domanda sulla scelta di lingua o di dialetto, di retorica o di genere: una posizione che si rivelerebbe cieca alla realtà multimediale coi suoi processi di decostruzione.



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Dopotutto la scelta della lingua in cui scrivere è secondaria. Sembra, secondo l’antico modello, una problematica inviolabile posta in principio – una scelta onnicomprensiva di luogo, provenienza e destinazione com’anche di tempo e storia – inoltre un paradosso invalicabile d’in/comunicabilità: la porta da entrare che si chiude dietro, per scrivere, la lettura. Questo paradosso linguistico ha marcato la soglia d’accesso facendosi verbo, come debito al potere: politico, sociale, economico. Lo scogliersi del vincolo del paradosso, con l’appacificarsi delle lingue nel canone, ha spianato gli accessi differenziali al potere (di classe, nazionalità...) nell’unico accesso alla multimedialità, un unico potere aterritoriale, apolitico, senza classi... La scelta di lingua rimane qui, sebbene indifferente, aperta: nella multimedialità la scelta linguistica procede parallelamente alla sua possibile decodificazione in ogni altra lingua.



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Affermare nondimeno che la scelta linguistica, dopotutto, sia secondaria, significa non porla in principio, ma come motivo centrale di speranza. Infatti l’attenzione cade non sulla lingua ma sulla parola, che a sua volta, lungi dal richiedere la lingua, necessita della sua rottura.



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Allo stesso modo si può pensare alla composizione delle lettere negli anni. Gli interlocutori cambiano come cambiano la terra ed i confini. Chi emigra accelera il tempo fino a perdere nella lingua l’interlocutore e nell’interlocutore la lingua. Alcuni issano la vela sulla pagina avendo perso il colloquio. Può darsi significhi essere in preda alla parola.



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Che la parola sia lettera e la lettera parola è testificato dalla pagina bianca spenta dal sole. Come per la traduzione, vi sono due modalità di orientamento: secondo la bussola e secondo la rosa dei venti. Quest’ultima non rispetta un canone di riferimento, piuttosto cresce per niente come per tutti, la parola. La traducibilità rimane muta con i suoi colori. Anche la speranza non si pronuncia. Quest’accade quando un alfabeto si rompe in una parola.



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L’alfabeto porta via con sé le prime due lettere che l’avrebbero compiuto.

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