Berlin, 2009

Berlin, 2009
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Friday, January 28, 2011

The song of justice must be jazz...

Non è vero.

Com’è difficile scrivere di giustizia. Una parola che le istituzioni hanno fagocitato fra il martello e le loro professioni. Una parola vecchia, logora – che non ha mai indossato il mantello del principe azzurro – neppure nelle più temerarie fiabe. Forse solo la bacchetta della fata può ancora scoccare nell’aria e trasformare le rane in dame e dare la giusta retribuzione ai malfattori. La giustizia, infatti, qualunque cosa questa sia, ed in qualunque lingua si provi a dirla, richiede fiducia, speranza e persino un tocco di magia. Ma solo alle fate riesce facile di cambiare il mondo con un sorriso. Di solito invece occorre tanto coraggio e tanta forza, per guardare gli eventi, la ripercussione delle cose e, dal fondo più nero d’un peso di tempo, sorridere, quasi con leggiadria – e far sì, fare in modo, che questa guerra si trasformi in danza. Non è difficile, seppure sia tutt’altro che facile. Non è difficile perché non richiede malumori, armi e sangue. E non vuole vittime. Nessun sacrificio sull’altare del buon senso. Non ci raggira per indurci a compromessi ove le nostre speranze, le nostre ragioni ed i desideri, siano scomposti ai minimi comuni termini – buoni tutt’al più a giocar coi dadi. Un gioco di scommesse per i potenti, un casinò che ci spoglia nudi. Non è difficile perché questi sono i mondi difficili – dal Nord al Sud, dall’Est all’Ovest d’un mappamondo che per sua natura non conosce orientamento se non il disapparire. Il potere che si dimentica nella nostra esistenza spossata – mentre guardiamo ammaliati com’ancora le tigri saltino e vivano. Abbiamo mangiato troppo pure stasera – con l’appendice di colpa che guaisce per il cibo rubato – e anche oggi, come sempre – senza alcuna traccia di responsabilità. Abbiamo paura delle tigri perché loro ancora possono annusarci e sbranarci terrificante di noi? Mentre difendiamo il piatto – questo piatto magro – di cibo avariato – senza resti se non i nostri. Saremo seppelliti con le ossa del pollo, e lui canterà ancora da lì, morto, griderà il nostro nome in vano. Tutto questo è difficile. È difficile parlare, in questa lingua che è stata abusata così tante volte, per i porci comodi del baronetto di turno. È difficile vivere e comprare la vita – come se potessimo guadagnarla dal sangue delle vittime – dal sangue del tutto – muto. È così difficile parlare? In controcanto. Dire finalmente qualcosa di diverso? La sinistra, la sinistra, mano appassita. Se abbiamo potuto ridurci a tanto, se la mattina indossiamo sempre con vigore la testa dataci in prestito col contaore – e possiamo vivere attraverso la violenza delle vie, delle idee, la paura che ci abita – se possiamo tanto, perché allora non possiamo un sorriso? Un solo semplice sorridere alle cose? Perché il sorriso, come la felicità, hanno una relazione speciale con la giustizia – ed esulano dal nostro potere e dalla nostra impotenza, dal nostro volere e perdere, da tutte le guerre insceniamo di noi e noi stessi. Dobbiamo credere alla fata, se vogliamo cambiare le cose. Bisogna trovare uno spicchio di felicità da condividere coi prati e il cielo, gli animali ed anche gli umani – se vogliamo cambiare le cose: Allora i Berlusconi e le Nestlé del mondo si ritroveranno a vender cioccolata alle bambine anoressiche dalle trecce lunghe, e dovranno imboccarle finché i capelli non rivolteran loro le gole e le budella in vita sì tanto affamate e lungi-miranti. I porci. Dalle mani di miele e sabbia. Questi fanghi li priveran d’erba e solo farfalle baceran i loro capi morti. Questa lingua è tanto bella e belle le strade, il mare, d’un mondo che non ritorna. Sarà anche la giustizia feroce e dolce, una bestia a venire, ma ne carezziamo il pelo ogni giorno. Perché allora, allora perché no, andare nelle strade – son le nostre – e sorridere e dire, basta con questo? Esser felici almeno per un momento. Suonar i campanelli se non le campane: Berlusconi in galera!

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