Mia nonna parlava un italiano neutro, senza dialetto, senza ombra d’accento. Tracciarne le origini nel cognome così tanto esplicito sarebbe stata un’arte da cherubini, forse adesso lo è. Niente d’angelico, per l’amor di Dio, e difficilmente Un Dio poteva aver più bastardo San Pietro che lei. Certo, una di quelle persone che ti domandi, che Spalle larghe, che monti ci deve avere il Dio Olimpico. Ogni Domenica in Chiesa, a dispetto delle stagioni, ed ogni giorno il Quotidiano, a dispetto dei giorni. Ha arrampicato scale con un equilibrio sempre più vano, e del polpaccio poco a poco è rimasta sola l’ostinazione. La memoria non tollerava più tanto, negli ultimi anni della brutta mano di carte Nostro Signore ci ha dato. Mi domandavo come sarebbe morta, ed anche se il Golgota non ha tremato, come Microsoft Word invece lascia friggere sopra una linea rossa, soffiava il vento e s’addensavano le nubi sopra all’Ospedale di Livorno, e neppure la faccia iscritta di Mussolini poteva lasciare l’intemperie sul liberty del lungomare. Mio cugino ha attraversato il grigiore su una fragile bicicletta, e posso vedere le mura bianche e solide dell’ospedale sempre vuoto. Come è vuoto il confino. Come sono vuote le tracce d’aereo, e i cieli. Che mia nonna potesse dissolversi, e distendersi, questi sì che sono miracoli. Ancora mi sorprendo a pensare come possa guarire, invece che non c’è più, per poter guarire. Una febbre è svanita, una febbre durata. Un rantolo di tosse, una storia già esperita. “Ti dico tanto la verità, vorrei riportarla a casa.” Fra poche parole. Non poteva finire che in più belle parole, e spero mia mamma lo sappia.
Mia nonna, avresti potuto evincere a fatica, è nata a La Spezia, ma aveva le mani colore del treno, almeno per me. Colore del treno nell’inverno, quando sarebbe arrivata ed avrei vinto nel vederla per prima, strappata da Milano. Non c’era altro da sapere: niente di sua madre, o quasi, ma un passato infranto con un sorriso per mia sorella, quando forse è nata anche la nonna che ho conosciuto. Il colore gentile degli occhi, nascosto. Occhi così grandi che rimangono dove sono, presenti e nascosti, di poche parole. Indosso una vestaglia arancione rossa, per tanti anni. I Treni appartenevano a lei, come l’inverno, come certi segreti naturali.
E mia nonna non c’è più. Ci ha lasciato. Come la migliore pietra, non poteva reggere per eterno. Mi ha voluto bene, fra le poche o tante certezze, questa è una. Le sarebbe piaciuta: una pianta, il caffè, il colore verde. Non le piaceva: Berlusconi, la sinistra, vestiti non per bene, ma insomma tutto quello che non era per bene. E difatti la mia più consueta apostrofe era: “Vergogna!” Chissà se a La Spezia hanno tutti gli occhi da mare esacerbato.
Le pentole della cucina sono un arsenale da guerra, e le previsioni del tempo erano la sua prerogativa. Gli ombrelli, una questione sua. Sarebbe arrivata la mattina in bicicletta per competere col giornale di mio padre, è domenica. “Signora,” sarebbe stato a coda bassa e poi a spartirsi il televisore e le parole incrociate. Le ruote della bicicletta ventilate da una rete di fili elasticizzati, e poi l’estate la villa Fabbricotti dove i primi fili della memoria cominciarono a perdersi fra le palme e l’erba. L’estate il mare, Acquaviva, e Pancaldi nel pomeriggio, dove sarei arrivata puntuale per il gelato o il ghiacciolo (“macché ghiacciolo, è acqua!”) in una delle mie scorribande. Prova tu a spiegarglielo che voglio fare il bagno dopo.
Ci scriveranno data di nascita e data di morte, bravi stupidi. Mia nonna non è nata il dodici di Maggio. È nata ai tempi quando ancora s’aspettavano le navi e le bombe cadevano vicino, e mi dispiace che la Carta d’Identità dello Stato Italiano c’abbia cannato tanto a lungo.
(La mia del resto è in Comic).
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